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martedì 21 ottobre 2014

E c'innamorammo del Conte














Lo stile è bizzarro

di Matteo Tassinari
Lo   schema musicale più ricorrente è quello di un ritmo di velluto condotto con soffice discrezione, dalla chitarra al contrabbasso, accarezzato da spazzole che sembrano il frusciare degli antichi 78 giri. Poi improvvisamente rotto dai riff ballabili della sezione fiati e allora è come se tutta la sala da concerto si mettesse a danzare pur stando fermi in singola estasi naturale, senza additivi. Ho visto gente volare ascoltando Paolo Conte e il suo Jazz. Ci sono strutture ritmiche a New Orleans o comunque degli anni Venti, nelle quali s’innestano interventi solistici, specie al sax soprano, più maturi, pensosi, malinconicamente europei (il modello per eccellenza è sempre il Sidney Bechet del periodo parigino). Ci sono andamenti da strada, da circo, acrobazie da saltimbanco, come il rincorrersi del bandoneon del kazoo in Lo zio. Ci sono, anche, massicce entrate a effetto, crescendo, gran finali d'impeto torrenziale che strappano gli applausi (Hemingway).
Nasi tristi
come   salite
E poi litanie senza senso che placano tutto, o frasi melodiche memorabili come quelle di Chiamami adesso. Gli impermeabili o quella "rotonda" di Il treno va, incisa solo ora ma che noi ci portiamo indelebile nel cuore fin da quando Conte la cantava nei suoi piccoli concerti degli anni Settanta. Una linea purissima, ma accuratamente intorbidita da quella sua voce dura, dimessa, quasi fosse rovesciata. Una voce non più laconica e svogliata, ma di tuono, che sa di freddo umido da caverna, di ruggine, di verderame, di colori autunnali e che quando si intuba nel suo baluginante kazoo, allora si increspa e diventa versaccio di uccello, si screpola, come nei Giardini pensili, per il ghibli infuocato che soffia sull'andamento musicale da cammello di questa canzone, scritta per un lavoro teatrale di anni prima. Tanto feticismo novecentista si fa persino indecente in certi testi di questo nuovo disco: Novecento, Gong-oh, 
Vulnerabile
di fronte alla
realtà attuale, scorticato da una decadenza vissuta come putrefazione quasi fisica, Conte non rievoca il passato, ma ci si tuffa dentro come nel liquido amniotico. Lo contempla da dentro come un giocattolo da smontare, ci può lavorare, stilizzandolo, celebrandolo o ironizzandolo, magari vanificandolo, comunque utilizzandolo a piacer suo come un'inalterata realtà alternativa, un universo parallelo. Curioso per esempio come dal primo Novecento Conte riceva una fascinazione tecnologica e futurista.  E’ quel paradossale "vecchio modernismo" che stuzzica, il rumore dei motori, l'alzarsi dei primi aerei, il baccano della gente a mezzanotte e la gente era entusiasta come dei bei pavoni australiani, quelli verdi.
Teatro Politeama












Un Fou de love
L'uso stesso del linguaggio scelto ad hoc con proverbiali tecniche ipermeticolose. Magnesio, manganesio, Singer, spolverino, mocassino, garage, galvanico, pleistocenico, macadam. Lo sapete esattamente che cos'è il macadam? Prende il nome dall'ingegnere scozzese John Loudon McAdam, che nel 1820 ideò la pavimentazione stradale in conglomerato pietrisco. Amore sconfinato per il progresso del tempo passato, miti di meccanismi e ferro, ruoli sociali desueti, excursus letterari, scelte melodico-armoniche che richiamano modi e ritmi di quell'epoca. Schiavi, tutti, del Politeama.
Musique pour vous qui vivez la grâce des sens

Tutto il resto è Francia
Miracolosamente il suo distanziarsi, il suo andare all'indietro, contro corrente, non lo allontana dal pubblico. Il suo starsene in fondo al palcoscenico, arroccato in un angolo con il suo gruppo di fedeli stretto intorno a lui, non esime gli spettatori dall'entusiasmo. Con un'unica piccola riserva: ci ha così viziato col suo perfezionismo, che non ci sorprende più. Passano quasi tre anni perché si riveda un nuovo album di inediti (ben diciassette), Una faccia in prestito, che conferma i due filoni che stanno informando il repertorio di Conte. Da una parte la sintesi fulminante delle composizioni flash, trionfo della canzonetta sublime cime Quadrille, Un fachiro al cinema. Dall'altra le lunghe suite strumentali, ripetitive (L’incantatrice) che da ammaestratore di serpenti trascina sinuosamente in frasi sudate come in una sauna, trasferite da uno strumento all'altro come in un bolero dove il testo, se c'è, è astruso e il canto maccheronico, stanco e un poco malato, come i tavolini dei bar sotto la pioggia fine di Parigi.
Significativa
presenza
nel disco ha il mondo dello spettacolo, tematica assai ricorrente in Conte. Non sempre i luoghi dell'arte e i relativi protagonisti che celebra sono di prim'ordine, anzi spesso si tratta di artisti solitari, in pensione, o depressi, o semplicemente incatenati nel proprio ruolo, quello dell'eterno attore della vita. Assomigliano un po' ai personaggi circensi di Picasso, quando frequentava i circhi per poter trarre soggetti per i suoi quadri, esili figure a tinte pastello, incastrate in un mondo onirico, parallelo al mondo reale, quello del pubblico, quello che sta sotto il proscenio. In questo album, oltre a Teatro, orazione d'onore per il chiuso Alfieri di Asti, troviamo Fritz, clown ormai in pensione che non riesce a ricordare le sue barzellette, pur vivendo nella convinzione che se le potesse ricordare tornerebbero i bei vecchi tempi in cui sapeva far ridere, era cosa naturale cadere con lo stile in ambienti dove lo stile conta. 

Irregolari,  eccentrici, dilettanti.
Artisti     solitari
I ballerini di Milonga

O la malinconica doppiezza di Una faccia in prestito, la doppiezza della vita dell'attore che veste la maschera oltre il sipario, ma dietro le quinte è solo un uomo di sofferenze e rimpianti. Non solo artisti malinconici, però, frequenta Conte. Il ballerino di Happy Feet è una travolgente creatura da palcoscenico, felice come recita il suo soprannome, che gli calza addosso come una seconda pelle. Il concerto corrispondente all'album riprende Aguaplano come incipit. Il bandoneon sta già ronzando come una mosca quando Conte entra e butta lì, sul pianoforte, il "tin" acuto di una gocciolina, subito, nel "grande mare" cominciano a dilatarsi come cerchi sull'acqua le onde di una musica avvolgente e coinvolgente, perfetta, misurata a puntino, che ballonzola poi per tutto il concerto. Sul palco e "fin dentro all'anima". In quanto anticamera del jazz, la musica di Paolo Conte si permette anche, senza vergognarsi, di sdilinquire la gente in un facile ascolto e far ballare le coppie, se si potesse. Attorno al pianoforte sornione del titolare, ci sono i cinque militanti (Massimo Pitzianti, Claudio Chiara, Luca Velotti, Alberto Mandarini, Rudy Migliardi) che manovrano l'intera gamma dei fiati: flauto, clarinetto, sax soprano, tenore e baritono, tromba, trombone e basso tuba. Sono i veri protagonisti di questa musica, eppure, sordina o no, è come se restassero sempre in lontananza, anche quando si schierano sul proscenio, come emergendo dalle nebbie di un film felliniano.
Il Muziektheater, teatro di Amsterdam e la band tutta di Paolo Conte
Milonghe

e         spazzole





















Quasi    sempre acustico anche tutto il resto. Il contrabbasso (Jino Touche), due chitarre (Daniele Dall'Omo e Alessio Menconi) lanciate a rotta di collo negli accompagnamenti ritmici ossessivi delle milonghe. Spesso, all'unisono, niente assoli, non siamo in un concerto rodeo e una batteria che va quasi sempre a spazzole, oltre a qualche percussione più o meno etnica. Un'orchestra vera, numerosa, tutta in smoking, dentro la quale l'impasto fra i vari strumenti è comunque sempre soft, discreto, leggero. Riconoscibili, quasi oleografici, sono i modelli delle grandi orchestre swing da Tommy Dorseya Count Basie, di grandi fiati come il sax tenore di Coleman Hawkins, della grande canzone da musical o da night situata sull'asse Broadway-Hollywood. Mediati e integrati da alcuni altri riferimenti.
La    Francia,
appunto.
Non solo nel jazz-musette ma anche in quel percorso anni Cinquanta che va da Trenet a Brassensj all'America Latina, tra rumba e beguine, tra milonga e Piazzolla. Arte povera della tradizione popolare, con il kazoo ormai Conte non solo spernacchia, ma con precisione millimetrica suona, canta e addirittura parla, sembra che rutti. La famiglia transoceanica dei modesti strumenti a mantice sparsi per il mondo, fisarmonica, accordeon e bandoneon e le citazioni orientaleggianti, comunque esotiche, stavolta conclamate dal titolo furioso Sijmadicandhapajiee, che peraltro è solo jazz, Lavance, Max, Lo zio, Don't Throw, It In The Wc. Tutti piatti forti, profumi di fieno, nenie africane, e cantilene svisate dalla meraviglia di fare musica in 19 elementi tutti insieme contemporaneamente.
Vendendo sogni, non solide realtà.
Ma quale sensazione può offrirti così come giostrare su sette note, minori e maggiori e diesis? Poche sensazioni sono al loro pari. Canzoni tropicali, intrise di umori poetici e musicali di altri tempi, canzoni scimmiesche non solo per le smorfie di chi le dirige ma anche per il virilismo della sua attitudine mentale. Inviti irresistibili ad andare "via con lui", a partire con la danza e con il sogno ma non si può, il Mocambo è una nave che resta immobile per lasciare spazio solo alla fantasia, quella salgariana che ti lascia inchiodato alla poltrona, sotto le stelle del jazz in Messico.
L'Arena di Verona in attesa del Conte
La     monumentalità
delle cose

Nel   successivo tour mondiale che si colloca ormai nel secondo millennio, non c'è più solo Ginger Brew. Il concerto si apre su una parata di vocalist femminili in bianco e nero, giusto quella nera di Ginger, spicca il volo della melodia assassina di Razzmatazz (il titolo della canzone è da scrivere con due doppie zeta, diversamente dal titolo dell'opera RAZMATAZ, nulla a che fare con un titolo quasi identico, Razzamatazz, inciso da John Travolta nel 1978, povero Conte, cosa riserva il destino, lui e Travolta, come paragonare un Van Gogh a Modigliani dei colli torti e lunghi). Dopodiché, nascosto tra una e l'altra, si scorge, come un intruso che finge di non esserci, l'obliqua figura di Paolo Conte che dondolando rompe la simmetria allineata e coperta delle donne. Ma ecco che la melodia stoppa all'improvviso e come on and swing, little young, Junny girls, parte un ritmo di charleston. Ben sei sono i pezzi tratti da RAZMATAZ che vengono portati in tournée. C'è Talent Scoutman, che inizia con un'introduzione lenta per pianoforte a quattro mani, poi le voci "bianche" in coro a bocca chiusa, la voce nera che recita sussurrando, e tutte insieme infine per un improvviso ragtime. C'è l'enigmistica Paris, les Paris, che Conte canta in piedi come un cantante vero, suadente e seduttivo. Un pezzo alla Charles Trenet, un valzer per nulla lezioso, imbevuto piuttosto di jazz francese, leggero e spazzolato. La regina nera, anzi La reine noire, finché la canta lui da solo al piano e The Black Queen quando dopo uno stacco di fiati la abborda Ginger Brew.






















Avventori e avventurieri
Quante  volte, in questa e in tante altre canzoni si respira un’aria di vecchio varietà, di avanspettacolo, di cafè chantant napoletano. “Il guitto c’è sempre – mi disse in un’intervista nel 1998 al gioiello del teatro Petrella di Longiano in provincia di Cesena -. Per me è una specie di fissazione. Bisogna essere sempre guitti sul palco, altrimenti la gente ti sgama e sei fritto come un uovo senza la crosticina ai bordi”.