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sabato 31 gennaio 2015

Preferiva Bocca di Rosa a Marinella


Ombre di faccia, facce da marinai...

di Guido Harari*
La maggior parte delle sue canzoni, nascono come brevi racconti, aneddoti che diventano leggende o fiabe. È la materia stessa del narrare a suggerirgli la musica. Del resto lui si è sempre e solo fidato del suo estro musicale senza dirlo, lasciandosi prendere dalle onde di un litro di whisky appena bevuto. Lui sempre lucido, mai visto sbronzo, o che me l'abbiano detto. A volte forse la chitarra era leggermente scordata, ma lui evitava ogni genere di stonatura, sia vocale che musicale. Le canzoni che ha scritto, sembra quasi che lo aggredissero per la fatica che ci metteva nel comporle. Era un'autentica battaglia di logica, riferimenti, metafore, leggende, allegorie e tanta sensibilità verso il patire umano, la sofferenza cardiaca. Di solito l'attualità che lo colpiva, passava attraverso un processo di metabolizzazione, magari bastavano due giorni, altre volte qualche mese, se non due anni.
Memoria distorta
Come voleva lui, altrimenti, tutto quello scrivere, quel sudore invisibile che prende al fegato e alla testa, gli sarebbe servita per qualche articolo di cronaca insignificante. Un vecchio psichiatra che si chiamava Carl Gustav Jung sosteneva che dell'artista si potrebbe parlare più che altro di artigianato che non di arte, per poi essere dilaniato proprio per la creatività di qualsiasi artista. Il suo "certosismo" nel cercare gli aggettivi adatti, fino a quando viene fuori un punto misterioso che con l'artista c'entra poco, ma a lui arriva il quid. Succede raramente, ma succede. Accade più spesso quando si è giovani. Talvolta il ricordo arrivava da molto lontano, dai balli a palchetto delle campagne astigiane degli anni Cinquanta dove Faber andava in vacanza con la famiglia, e dove trovava un paio di labbra impiastricciate di viola, la cucitura di una calza di seta che scompariva nella "terra promessa", il balcone dipinto di verde, diventavano i particolari di una memoria diversa e più recente.
Genova    ha
la   faccia
di tutti i poveri umani che De André ha conosciuto nei  carruggi frequentati dal cantautore, i marginali e non gli esclusi, che avrebbe poi ritrovato in Sardegna, ma che ha conosciuto per la prima volta nelle riserve della città vecchia, le "graziose" di via del Campo e i balordi che, per mangiare, potrebbero anche dar via la loro madre. I fiori che sbocciano dal letame, i senza dio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo spazio ben protetto, in paradiso ad accoglierli.
Scuola Genovese?
Mai esistita
Si trattava di sottoproletariato, quindi neanche di una classe precisa, agguantabile da quelli che erano i partiti politici tradizionali, era un mondo che in qualche misura cercava di difendersi dallo Stato. Un'altra lezione di Genova? Essere professionisti seri non ha niente a che vedere con l'amor proprio o il narcisismo. Se non sei perfettamente capace di fare una cosa non devi farla. Genova è una mamma bellissima ma cattiva.
T’insegna che, se diverti e fai ridere,
e ti sai fare ascoltare in casa sua, puoi andare per tutto il mondo. A Genova è diventato una persona come tutte le altre di cui si può persino "cetesà", cioè spettegolare un pochino. La Scuola Genovese, di cui tanto si parla, come movimento unitario, in realtà, non è mai esistita. Nessuno ha mai fatto da maestro all'altro. Si conoscevano tutti, certo, anche perché Genova non è poi così grande, e s’incontravano al bar & Corso Italia o al Roby Bar, comunque sempre dalle parti dell’angiporto che attornia tutto il porto genovese, il più importante d’Europa, cerniera fra Europa e Africa, molto spesso. La voglia di emulazione era forte. Una delle prime canzoni che scrisse fu Il testamento. La fece sentire per primo a Gino Paoli, a casa sua. La ascoltò in silenzio e alla fine mi disse: "È bellissima! Ma dopo una canzone come questa, uno cosa può scrivere ancora

                                     Sfogliava con occhi
     di   lumaca
Quasi tutti avevano frequentato il liceo classico e il classico era l'italiano da Dante a Montale e gli autori francesi. Inoltre nella Genova di quegli anni si respirava un'aria da esistenzialismo bohémien e cominciavano già a circolare i primi dischi di Charles Trenet, Leo Ferré, Brassens. Si vede bene quindi quanto l'influenza francese fosse inevitabile. Per Bindi credo sia stato più importante Trenet che Brassens.
Tenco adorava gli americani,
in particolare Nat King Cole. Paoli era il più istintivo e tonto, quanto assai poco originale. Le sue uniche ascendenze potrebbero risalire al canto gregoriano. Quanto a Fabrizio, non ha mai vissuto Brassens, anche musicalmente, come un fenomeno esclusivamente francese. Ho saputo che sua madre era italiana, non so se sia vero, sicuramente la sua musica è latina, napoletana, da bettola del primo ‘900. Ci si ritrova la tarantella, la musica di strada del nostro Sud. Operazioni di riversamento della letteratura "in musica, in canzone, che aveva già fatto lui per me e io senza faticare ho ritrovato tutti quei riferimenti nella sua originalissima traduzione”.
Genova,
l’anziana      lanterna
Genova era per De Andrè come una madre. Lì ha imparato a vivere, ad andare a puttane negli anni dell’alta adolescenza e a bere cocktail che stendevano in orizzontale. Genova l’ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Anche se a colmare la distanza fra quel quasi e quel tutto contribuirono le canzoni di Brassens. Genova è stata una palestra in cui Faber s’è esercitato a vivere e quindi, grazie anche alle culture limitrofe, a pensare, scrivere e suonare e le sue passioni avevano origini imprevedibili, come quando disse che lo Stato al Sud non c'era per questa ragione le criminalità organizzate avevano tanti arruolati ai traffici illegali, ma che permetteva loro almeno di guadagnare qualcosa. Luciano Violante, all'epoca impegnato nella lotta alla mafia, s'inalberò contro il cantante genovese, senza neanche pensare che era vero quello che Fabrizio diceva. Per questo e altri motivi visse, senza saperlo, spiato per 22 anni dalla Sisde, i servizi segreti negli anni '70. 
A cinque anni    la vide    bene
per la prima volta e se ne innamorò subito tremendamente e alla prima partita della sua vita, Genoa-Sampierdarenese, sposò subito la squadra che portava il nome della sua città. Un amore che non ho mai tradito. Genova è sempre stata un crogiolo di civiltà fin dal Medioevo, vorrei dire come Sarajevo. Già cinque secoli fa nessuno faceva caso se qualcuno portava il turbante. Genova è nata e cresciuta nel rispetto delle diverse religioni. Non c'è mai stato un ghetto, bassifondi, bidonville, suburbie, baraccopoli, bassifondi o favela. La Chiesa qui ha avuto poco potere, e anche l'Inquisizione. A Palazzo Ducale non è mai esistita una sala della tortura. Non credo che fosse tanto una vocazione illuministica, quanto la necessità di aprirsi a tutti per interessi commerciali. I carruggi oggi sono pieni di marocchini? Per Genova non è una novità. Questa è una città a vocazione democratica e libera, tollerante perché da sempre fa affari con tutti senza badare alla lingua, ai costumi, all'abbigliamento o al colore della pelle. I genovesi, poi, sono come gli ebrei. Dovunque siano, dovunque vadano, si ritrovano sempre, si parlano, tornano idealmente a Genova. Furono viaggiatori e mercanti straordinari, e quando arrivavano in qualunque cantone del Mediterraneo non chiedevano terreni o fortezze, ma solo la libertà di commerciare e di continuare a viaggiare. Genova ha sempre avuto una malavita locale, che però si teneva distante dai fenomeni di mafia e di criminalità organizzata. Sono convinto che anche oggi sia una città atipica, lontana dalle correnti della 'ndrangheta o della mafia.
La maggior parte delle sue canzoni, nascono come brevi racconti. È la materia stessa del narrare a suggerirgli la musica. Le canzoni che scriveva sembrava quasi che gli appartenessero solo in parte. Detestava Marinella e amava Un chimico. Tutte narrazioni così, come l’hanno aggredito e preso per il petto. Lui con la stessa fora le ha cantate al suo pubblico. Per un incontenibile affiorare di ricordi la memoria fino a gonfiarla per poi esplodere in una canzone. Di solito l'attualità che lo colpiva, passava attraverso un processo di metabolizzazione, assimilare e sopportare. Il suo certosismo nel cercare gli aggettivi adatti, non era inferiore ad alcuno. Talvolta il ricordo arrivava da molto lontano.
Carl Gustav Jung

Magari bastavano    due giorni, altre      volte
qualche mese, certe anche due anni. Un vecchio psichiatra che si chiamava Gustav Jung sosteneva che l'artista si potrebbe parlare più che altro di artigianato che non di arte, per essere solitamente aggredito da quello che poi sarà l'oggetto del suo pensiero, dalla forza dei suoi brani che gli succhiano quella creatività che era anche tormento, assillo, martirio, la capacità di stare lì con la penna in mano per aggiustare due righe che non gli tornavano bene al suo orecchio. Su due righe passava anche una settimana, perché alle parole oltre al significato, lui cercava parole che avessero un suono che si abbinasse alla musica che gli strumentisti di prim’ordine accompagnavano.  Dai balli a palchetto delle campagne astigiane degli anni Cinquanta, dove un paio di labbra impiastricciate di viola, la cucitura di una calza di seta che scompariva nella "terra promessa", il balcone dipinto di verde della casa, diventavano i particolari di una memoria diversa e più recente, dalle labbra di Bocca di rosa alla disperata attrazione per la stanza semibuia di Via del campo.
*di Guido Harari*, biografo ufficiale di Fabrizio De André